Intervista a Lorenzo Mortato, Specialista IT, Web developer e Docente di Informatica e Web.
In Italia è il tardo pomeriggio del 4 ottobre 2021, quando social e app di messaggistica del gruppo Facebook (Facebook stesso, Messenger, Instagram e WhatsApp) smettono improvvisamente di funzionare.
Un “down”, quello del colosso social di Mark Zuckerberg che durerà contro ogni previsione per sette lunghe ore, fino alle prime ore del mattino successivo, e che col passare del tempo getterà milioni di persone nella confusione prima, in una sorta di panico o sollievo, a seconda dei casi, dopo.
Abbiamo chiesto a Lorenzo Mortato, specialista IT, web developer freelance e docente di Informatica e web, cosa può causare un down così prolungato e quanto questi malfunzionamenti possano impattare sulla sicurezza dei nostri dati. Prima però, capiamo come mai questo “social down” ha fatto così rumore.
Il secondo “social down” più lungo della storia
Il “Facebook down” di lunedì 4 ottobre, per quanto di per sé un’anomalia in termini di durata, non è però il più lungo della storia: il primato assoluto risale al marzo del 2019, quando un grave malfunzionamento in quel di Menlo Park rese irraggiungibili i social del gruppo Facebook per ben quattordici ore.
Eppure, forse a causa del peso ancora più rilevante assunto dalle piattaforme digitali negli ultimi due anni, essenziali a mantenere salde relazioni e rapporti a fronte di spostamenti limitati dalla pandemia, o forse perché tutte le app del gruppo Facebook hanno improvvisamente e allo stesso momento tagliato fuori dal “mondo digitale” miliardi di persone, questo social down ha fatto parlare di sé come mai prima, spingendo gli utenti web a riversarsi su Twitter (che ha registrato il più alto numero di accessi della sua storia) per discutere dell’accaduto e far circolare sfoghi, tweet di sollievo per questo inaspettato “social break” e fake news sul destino di Facebook.
Lorenzo, nella tua carriera, ti è mai capitato di assistere ad un sito o sistema di siti in down per così tante ore?
- Lavoro in questo settore da oltre venti anni: la mia prima volta su internet è stata con un modem 32k. In tutti questi anni ho visto varie volte andare in down sistemi informatici, la più clamorosa qualche anno fa, quando la webfarm di Aruba.it è andata a fuoco e, a causa di ciò, metà dei siti italiani sono stati irraggiungibili per quasi due giorni. Penso che il problema capitato ai server di Facebook qualche giorno fa, resterà altrettanto nella storia del web.
Come mai un sito può andare in down? Cosa è successo esattamente il 4 ottobre a Facebook?
- Le cause di un down possono essere molteplici, dagli agenti atmosferici alle calamità naturali; può capitare un’interruzione di energia elettrica o un un’errata impostazione dei server. Nel caso avvenuto nei primi giorni di ottobre è proprio l’errore umano ad aver causato il problema ai server di Facebook, che di conseguenza ha influenzato anche quelli di Whatsapp e Instagram visto che sono strettamente legati tra loro. Come riportato dal New York Times si è trattato di un problema di configurazione di indirizzi IP, che ha reso irraggiungibile le piattaforme per ore.
Bias dell’autorità e “Facebook down”: perché ci siamo attribuiti la colpa del malfunzionamento?
Se dopo diverse ore è stato chiaro a tutti che il malfunzionamento di Facebook fosse imputabile unicamente ai server proprietari della piattaforma, nei primi momenti di down sono stati in molti ad incolpare sé stessi, i propri device o i service provider per il mancato caricamento di una story di Instagram o l’impossibilità di inviare un messaggio su WhatsApp.
Ciò si deve al bias dell’autorità (authority bias), bias cognitivo molto comune e influente, che porta le persone a non dubitare, anzi a fidarsi ciecamente dell’autorevolezza e dello status rilevante di istituzioni, aziende o persone fisiche in posizioni influenti, attribuendo quindi a sé stessi eventuali errori o imprevisti.
Perché incorriamo nel bias dell’autorità?
Gli esseri umani, essendo animali sociali, sono abituati da sempre a riservare molta influenza all’autorità, tendendo ad assecondare o ritenere valido il volere e il parere di figure in posizioni apicali. Sin da bambini, per esempio a scuola, dal medico o in casa con i propri genitori, apprendiamo che molto spesso conviene ed è desiderabile obbedire a quanto stabilito dall’autorità, in quanto portatrice di saggezza, conoscenza e buon senso.
Questo meccanismo può spingerci col tempo a essere deferenti a prescindere al volere di figure autoritarie, senza che nemmeno ce ne rendiamo conto a livello razionale: ciò avviene ad esempio non mettendo in discussione il loro operato quando le cose non vanno come sperato, ma anzi sentendoci noi per primi in difetto o causa di un determinato errore. Questo è proprio quanto accaduto durante il social down di lunedì 4 ottobre: invece di pensare che il malfunzionamento di Facebook dipendesse da un problema della piattaforma stessa, inizialmente molti hanno cercato di comprendere quale errore avessero commesso per non far funzionare le app colpite dal down.
Un delay nell’esperienza digitale? Induce stress come la visione di un film horror
In questo caso, però, il bias dell’autorità ha influito sulla percezione del problema in modo limitato. In ambito digitale infatti, man mano che passa il tempo un eventuale “delay” (ritardo) nel caricamento di una pagina o nell’invio di un messaggio viene automaticamente attribuito dagli utenti web al content provider (il sito o l’app che non funziona) invece che al service provider (ad esempio la propria connessione wi-fi).
Un assunto emerso dallo studio neuroscientifico “The stress of streaming delays“, dell’Ericsson CustomerLab, centro di ricerca comportamentale del colosso delle telecomunicazioni Ericsson. Obiettivo dello studio, studiare la reazione non conscia degli utenti web di fronte a problemi di visualizzazione e caricamento che si possono riscontrare durante l’utilizzo di siti o piattaforme da mobile. In un mondo in costante movimento, l’utente che naviga sui social e siti web entra in contatto ogni secondo con nuovi stimoli: velocità, dinamicità e immediata reperibilità di informazioni diventano aspetti essenziali di una buona digital customer experience.
L’esperimento di Ericsson
Ai partecipanti all’esperimento è stato chiesto di completare una serie di task (come guardare un video su YouTube o aprire una pagina web) sperimentando nel frattempo diversi problemi di fruizione di app o piattaforme e differentio gradi di attesa per il caricamento di contenuti o pagine.
Per misurare l’impatto a livello non conscio che questi malfunzionamenti hanno sulle persone, sono stati utilizzati strumenti neuroscientifici in grado di osservare l’attività cerebrale degli utenti mentre completavano il task, come la risonanza magnetica funzionale, i loro movimenti oculari con l’eye-tracker ed eventuali cambiamenti del battito cardiaco grazie all’heart rate.
I risultati sono stati davvero incredibili: lo studio ha stabilito, ad esempio, che Il livello di stress causato da un caricamento lento e non efficace è paragonabile alla visione di un film horror, mentre il battito cardiaco di chi fa esperienza di delay mentre guarda contenuti su mobile aumenta persino del 38%.
Dalla ricerca emerge inoltre che sperimentare un “delay” anche solo di 2 secondi quando si guarda un video su YouTube, è oggetto di una crescita del livello di stress negli utenti di 3 punti percentuali. Una volta iniziato il video, inoltre, una singola pausa può causare un aumento dello stress del 15%.
Social down e fake news: i nostri dati sono al sicuro dopo il 4 ottobre?
In una società in cui la vita delle persone è indissolubilmente legata al digitale, quando il delay o il malfunzionamento di una app o sito web come Facebook perdura per ore, la momentanea frustrazione si può tramutare in impazienza, in seguito persino in una sorta di panico: su Twitter, una delle poche piattaforme social rimaste attive e disponibili dopo il down, sono bastate poche ore per iniziare a veder circolare fake news e tweet allarmanti sul destino di Facebook e dei dati dei propri utenti.
Tra chi sosteneva che Facebook fosse definitivamente sparito dal web per via di un errore umano, altri affermavano con certezza che i dati di milardi di persone fossero già in vendita, dopo il down, sul mercato nero: teorie e fake news smentite quasi immediatamente, ma non prima che potessero circolare e agitare molti utenti, confusi dalle ore di malfunzionamento di Instagram o Whatsapp, che quindi hanno tentato, di tanto in tanto, un nuovo accesso sulle app o siti web ancora fuori uso.
Lorenzo, cosa conviene fare agli utenti quando un sito va in down? È vero che continuare a tentare l’accesso ad una piattaforma non funzionante rallenta i processi di recupero?
- Quando ci troviamo in situazioni come quella dello scorso lunedì, una volta appurato che si tratti di un guasto globale e non di un problema al device personale, tutto quello che possiamo fare è attendere che gli esperti risolvano il problema.
Per aiutare il processo di riavvio dei server è meglio non cercare continuamente di accedere alla piattaforma ma dimenticarsi del problema per qualche ora e andare a bersi un buon caffè.
I dati degli utenti sono al sicuro dopo il down del 4 ottobre?
- I nostri dati sono molto preziosi e le società a cui li affidiamo, come Google, Apple e Facebook, investono molto per garantirne la protezione.
Io stesso ho avuto l’opportunità di vedere un Data center e constatare l’incredibile sistema di protezione da eventuali attacchi informatici messo in atto, arrivando ad avere guardie armate a tutti gli ingressi. Perciò nessun problema, il guasto del 4 ottobre non ha nulla a che vedere con allarmanti fughe di dati.
Fonti:
- The Stress of Streaming Delays, Ericsson Mobility Center, 2016.
- Authority Bias.
Comments by Gabriele Sebastiani