Benjamin Franklin sosteneva: “È facile vedere; è difficile prevedere”.

Una massima ancor più valida nel contesto attuale, in cui fare previsioni sugli scenari futuri è un esercizio complicato per via della novità della pandemia che, per la stragrande maggioranza dell’umanità, è come un fenomeno nuovo, di cui non avevamo esperienza diretta.

È innegabile che le limitazioni imposte dal contesto odierno stiano modificando i nostri comportamenti, anche quelli che abbiamo nei confronti di brand e prodotti. La nostra relazione con essi diventa meno fisica e più digitale e le esperienze d’acquisto, nel prossimo futuro, potrebbero presto non essere più mediate dalla presenza umana, dalla visita in negozio e dal contatto con gli oggetti.

Ma quali di questi comportamenti si tramuteranno in abitudini stabili? E queste nuove abitudini saranno in grado di forgiare inediti modelli di business, di organizzazione e di comunicazione? Molto probabilmente sì. Non è sbagliato interrogarsi sul post Covid senza tuttavia presumere che le previsioni fatte finora siano descrizioni accurate di comportamenti futuri e, soprattutto, facendo attenzione a basare le decisioni solo su analisi ancora imperfette.

Soggettività e rapporto con gli altri: due parametri per leggere la realtà

Abbiamo già scritto del modo in cui il cervello percepisce la realtà soggettivamente, utilizzando le esperienze e le emozioni vissute per interpretare il presente e immaginare l’avvenire. Anche per questo il domani risulta spesso molto diverso dalle nostre previsioni.

Un altro aspetto fondamentale che influenza la nostra percezione della realtà è il rapporto con gli altri. Siamo mammiferi; ci sviluppiamo e nasciamo nel corpo dell’altro e il nostro cervello mappa questa relazione ben prima della nostra nascita.

Siamo quindi animali sociali: i nostri indicatori neurofisiologici hanno reazioni diverse quando abbiamo di fronte un essere umano anziché un oggetto ed impariamo a vivere in società anche grazie agli insegnamenti e agli esempi di altri. Pensiamo ad esempio al fenomeno dell’imitazione neonatale e a come apprendiamo i fondamentali della nostra esistenza — camminare, mangiare, parlare — imitando gli altri e sintonizzandoci con i loro comportamenti.

Imitare, agire, empatizzare grazie ai neuroni specchio

Il nostro cervello è infatti dotato di una classe di neuroni motori, i cosiddetti neuroni specchio, che si attivano sia quando compiamo un’azione (ad esempio mangiamo un gelato), sia quando la vediamo fare da qualcun altro.

La scoperta dei neuroni specchio ci ha dimostrato come percezione e azione siano due aspetti strettamente legati. I neuroni specchio sono neuroni motori: in altre parole il cervello che ci fa muovere il primo passo è lo stesso che ci fa virtualizzare la camminata mentre guardiamo gli altri, consentendoci di imparare.

Grazie ai neuroni specchio siamo anche in grado di provare le stesse emozioni degli altri, ecco perché ci commoviamo davanti ad una storia, anche se non l’abbiamo vissuta direttamente o è palesemente inventata — chi non ha versato anche solo una lacrima guardando E.T.? —, facciamo una smorfia se vediamo il disgusto di un estraneo mentre mangia del cibo sgradito, anche se non lo abbiamo assaggiato. In altre parole, siamo in grado di provare empatia che, non a caso, deriva dal greco εν (dentro) e πάθεια, dalla radice del verbo πάσχω, “soffro”.

La società dell’empatia collettiva

Non è azzardato dire che oggi stiamo vivendo una fase di empatia collettiva. La denominazione “distanziamento sociale” è in effetti fuorviante: mai come in questo periodo, infatti, la voglia di relazionarsi agli altri è cresciuta, in parallelo alla necessità di distanziamento fisico. Ci siamo parlati di più, abbiamo cercato insieme risposte, diversivi, antidoti all’emergenza. Siamo esseri relazionali per cui è difficile percepire la realtà senza confrontarsi con gli altri.

Questo vale in ogni ambito della nostra vita, anche quando elaboriamo una comunicazione o decidiamo di acquistare un prodotto. Una ricerca di Martin Lindstrom del 2011 ha dimostrato che quando i possessori di iPhone vedevano il telefono vibrare o lo sentivano suonare, si attivava la loro corteccia insulare, un’area del cervello in cui, tra l’altro, elaboriamo l’esperienza delle nostre emozioni di base, come la felicità. I prodotti che amiamo ci emozionano e questa elaborazione emozionale è spesso influenzata dal nostro rapporto con gli altri.

La relazione cambia il modo con cui elaboriamo le informazioni e percepiamo la realtà. Quante volte abbiamo acquistato un brand solo perché era di moda o perché era piaciuto ai nostri amici prima che a noi? Oppure siamo entrati in un negozio con un acquisto in mente e ne siamo usciti con un altro, perché un commesso è stato così convincente da farci cambiare idea?

Nuove abitudini e carenza di relazionalità

Qualcuno sostiene che i nuovi comportamenti diventeranno stabili perché le limitazioni si stanno protraendo nel tempo, consentendo alla plasticità del nostro cervello di adeguarsi al nuovo contesto. Ma occorre tenere conto che cambiare le nostre abitudini richiede un certo grado di sofferenza e di fatica cerebrale, che, quando il cambiamento è frutto di una scelta, vengono sostenute dalla nostra volontà e dalla proiezione di una ricompensa finale.

Oggi non ci troviamo in questa situazione per scelta e, in molti casi, la customer experience digitale è focalizzata su vantaggi materiali — lo sconto, la spedizione gratuita, la velocità di consegna — ma è ancora carente degli aspetti di relazionalità e rapporto umano che il nostro cervello necessita per costruire il framework percettivo nel quale compiere le proprie decisioni e provare una gratificazione finale.

Con la cautela ispirata da Benjamin Franklin, il consiglio è quello di conoscere a fondo i vari touch point della customer experience, individuare i fattori che influenzano il decision making e valutare l’impatto della componente relazionale nelle varie fasi. Nel breve periodo, la sfida è quella di preservare la relazione nel mondo fisico, con tutte le sicurezze e nel rispetto delle limitazioni, ed aggiungere relazione al mondo virtuale, tenendo conto che l’empatia non è un “nice touch” ma un cardine del nostro processo decisionale.