Un linguaggio universale, o meglio: un linguaggio sociale. La musica, secondo una ricerca di Daniel Levitin, Professore emerito in psicologia e scienze comportamentali alla McGill University di Montréal, sarebbe uno degli elementi fondanti per cui ci aggreghiamo in comunità e per cui siamo sopravvissuti fino ad oggi.
Proprio grazie alla musica, secondo Levitin, gli uomini si sono riuniti in gruppi e, così facendo, sono riusciti a scampare a molti più pericoli rispetto ai loro simili non dotati musicalmente, i solitari. Non sorprende allora che ancora oggi non possiamo farne a meno nella nostra vita quotidiana: è in tv, sui nostri cellulari, negli store mentre facciamo compere. La musica è ovunque e parla a tutti.
La musica: un linguaggio complesso
Ma come mai ritmi e melodie hanno una così forte presa sulle persone? Secondo Robin Dunbar, Professore emerito dell’Università di Oxford, la risposta è nelle endorfine che il nostro cervello rilascia ogni volta che ascoltiamo una canzone che ci piace.
Queste sostanze, prodotte dall’ipofisi, sono in grado di alleviare la sensazione di dolore e migliorare il nostro umore: tutto ciò solo grazie a un paio di cuffiette. Come dimostrano diversi test effettuati con fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging), i benefici di essere esposti alla musica sono anche altri: ascoltare un brano attiva infatti molte più aree cerebrali rispetto al linguaggio.
Nel cervello non esiste infatti un singolo centro dedicato alla fruizione di musica, ma addirittura dai venti ai trenta “network” in ogni regione attraverso cui analizziamo le diverse componenti di ciò che ascoltiamo, regioni che comprendono quelle dedicate all’attenzione, al movimento, alla pianificazione e alla memoria.
La musica, essendo una lingua complessa, obbliga il nostro cervello a concentrarsi meglio: ecco perché molti studenti preferiscono preparare verifiche ed esami sulle note del loro cantante preferito.
Evolversi a ritmo
La musica ha peraltro aiutato la nostra specie ad evolversi e a sviluppare una capacità mnemonica più strutturata rispetto alle altre specie: grazie alla ripetitività di ritmi e melodie, infatti, la nostra memorizzazione e la nostra capacità di raccontare storie e tramandarle si sono sviluppate e strutturate efficacemente fin dall’Antichità. Non è un caso che opere fondanti della nostra cultura come l’Odissea siano nate come narrazioni orali, con cui tramandare le gesta di chi è venuto prima di noi.
Il nostro cervello riconosce più facilmente e assimila pattern ripetitivi, come ritornelli e rime semplici, assimilandoli e divertendosi, perché, almeno non consciamente, siamo stimolati a predire come proseguirà una canzone che sentiamo per la prima volta.
Ovviamente, però, il gusto personale altera come percepiamo un determinato brano: ad alcuni piace il rock, ad altri la musica classica, ad altri ancora il country.
Un processo che si incastona nelle regioni del cervello che hanno a che fare con la nostra empatia, la nostra self-awareness e il nostro flusso di pensiero: non è tanto il tipo di genere di musica a fare la differenza, ma quello in cui ci identifichiamo. Ascoltare quella che ci piace, infatti, aumenta la connettività del cervello.
Il lato emotivo della musica
L’ascolto non è però solo un’attività logica, bensì ha una forte componente emozionale e personale: proprio come l’olfatto, la musica è in grado di attivare la memoria e riportarci indietro di anni in base alle nostre esperienze e alla nostra cultura, facendoci venire la pelle d’oca se ascoltiamo una canzone che i nostri genitori ci cantavano quando eravamo bambini, o quelle su cui abbiamo ballato durante una festa al Liceo.
Grazie alle emozioni, ogni brano può diventare un’esperienza intima. Non è un caso che la musica sia una delle forme più diffuse di conforto, proprio perché – come abbiamo accennato in precedenza – grazie alle endorfine riduce lo stress, il dolore e l’ansia. Come scritto sul blog di BrainSigns, spin-off dell’Università della Sapienza di Roma dedicato alle neuroscienze, “la musica è un processo comunicativo radicato nelle emozioni“.
Il cervello in musica: uno studio
Uno studio condotto da Oliver Sacks, neurologo, ricercatore e scrittore britannico, ha dimostrato i benefici che l’ascolto musicale può avere sulle persone affette da patologie anche invalidanti: grazie alla musica, gli spasmi e i tic di pazienti con la Sindrome di Tourette sono diminuiti in maniera significante, chi soffriva di amnesia ha ricordato le parole di una canzone che amava particolarmente, persone affette da Parkinson sono state in grado di ballare. Vantaggi sul nostro cervello che aumentano se siamo noi, in prima persona, a produrre musica suonando o cantando.
Chi ha praticato o tuttora suona di frequente strumenti musicali, ha dimostrato di possedere una migliore connettività cerebrale, nonché migliori abilità cognitive, uditive e persino motorie rispetto a coetanei che non hanno mai avuto a che fare con note e spartiti.
La musica in marketing e comunicazione
La musica è e deve essere una componente da non trascurare mentre si pianificano strategie di marketing e comunicazione: come abbiamo visto, una canzone, una melodia, un jingle possono sedimentarsi nel cervello e restare letteralmente “in testa” alle persone per lunghi periodi, tanto che a lungo andare, anche grazie alla ripetizione, il nostro brand potrà diventare immediatamente riconoscibile anche grazie al suo “posizionamento” musicale.
Per questo sempre più brand investono nel sound branding, o audio branding, affidandosi a professionisti della musica per dar vita alla propria identità sonora, capace di coinvolgere ed emozionare le persone, migliorando la memorabilità della marca.
Chi non ricorda, anche a distanza di vent’anni, lo spot Limoncé con la canzone “Lemon Tree?”
O I Don’t Wanna Close My Eyes come Theme song dell’amaro Averna?
E infine, chi non prova una grande nostalgia nel sentire il jingle della Sole, famosissimo negli anni Novanta?
Come abbiamo visto, la musica può essere un valido alleato per far ricordare un brand o un prodotto alle persone, rivelandosi anche un ottimo punto di partenza per costruire un rapporto emozionale con il proprio pubblico. Risulta importante, quindi, non tralasciare l’aspetto uditivo a cui viene associato il nostro nome: è anche fornendo un universo sensoriale ai consumatori che potremo riuscire a comunicare davvero perché il prodotto che proponiamo è quello in cui possono riconoscersi.
Ad ogni brand il suo jingle
Bisogna tenere conto del fatto che la ricerca del “suono” adatto al brand sia un processo da prendere molto sul serio, affidandosi a professionisti che valuteranno l’identità sonora più calzante: in ogni caso, è bene testare in che modo questa verrà poi percepita dal pubblico. Un jingle non adeguato, non allineato alle aspettative del proprio target può vanificare gli sforzi fatti.
Per verificare che reazione avranno le persone una volta esposte agli stimoli sonori di un brand, il neuromarketing mette a disposizione strumenti validissimi e che permettono di misurare i parametri neuro-fisiologici durante l’ascolto, valutando inoltre il livello di apprezzamento e di coinvolgimento emotivo che un determinato tipo di musica ha sulle persone.
Vuoi saperne di più?
Fonti:
https://www.thescienceofpersuasion.com/single-post/2019/01/28/Music-On-Your-Mind
https://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/1073858410377805
Comments by Gabriele Sebastiani