Un punto di vista diverso, capace a volte di far svoltare una campagna pubblicitaria e migliorare il packaging del prodotto, il design di un logo o la consumer experience offerta da un brand: negli ultimi anni neuromarketing e scienze comportamentali sempre più spesso sono state chiamate a fornire insight efficaci per garantire l’innovazione di idee di business e comunicazione. Ma come accade, in concreto?

Ottosunove ha avuto modo di osservarlo durante la Shopper Brain Conference di Amsterdam, dal 7 al 9 novembre 2018, a cui hanno partecipato i vincitori di un contest interno alla nostra agenzia, premiati con un’opportunità di formazione in ambito neuromarketing. Abbiamo raccolto i nostri appunti e ora siamo pronti a raccontarvi gli interventi che più di altri hanno ci hanno lasciato preziosi spunti e riflessioni.

Mike Storm, Neurons Inc

In un mondo che quotidianamente ci sommerge di stimoli di ogni tipo, riuscire a vendere il proprio prodotto è per ogni brand una sfida sempre più complessa. Nell’overload di informazioni in cui il consumatore di oggi si trova a compiere scelte d’acquisto, risulta cruciale, come suggerisce Mike Storm, Chief Operator Office della danese Neurons Inc, utilizzare i canali giusti per comunicare e comunicarsi: tv, radio, web pretendono linguaggi diversi, così come diversi sono i messaggi che veicolano.

information overload

E se il web e i social media favoriscono un’informazione più rapida e superficiale, la tv o il print advertisment consentono invece di instaurare con il fruitore del messaggio una connessione più profonda e, se si vuole, più densa a livello emotivo. Storm sottolinea come sia molto più facile che un individuo si trovi davanti alla tv per rilassarsi e concentrarsi solo su di essa, dedicando la propria attenzione quasi esclusivamente a ciò che sta osservando sullo schermo. Quando guardiamo un ad sul nostro cellulare, invece, è davvero raro riuscire a resistere più di pochi secondi prima di chiuderlo per liberarcene. Per i marketer, oggi, è quindi necessario trovare messaggi differenti per comunicare lo stesso prodotto attraverso i diversi canali attraverso cui lo si vuole lanciare.

Anche in ambito retail, in particolare negli store, si vive un sovraccarico di informazioni che, invece di garantire una scelta più ampia,  rischia di allontanare sempre più dall’acquisto un consumatore spesso confuso e frustrato. Più stress fa rima con meno acquisti, e quindi dosare e rendere immediatamente accessibili le informazioni fondamentali per i consumatori non può che migliorarne la shopping experience.

Ad esempio, Storm illustra i benefici di segnalare, con cartelli posti sopra le corsie dello store, la divisione dei vari reparti e le merceologie in essi disponibili per facilitare la ricerca e la fruizione dei prodotti da parte delle persone. È inoltre necessario utilizzare parole semplici e caratteri ben visibili  e – ancora meglio – utilizzare vele verticali di indirizzamento per semplificare il reperimento dei prodotti in ogni corsia. La categorizzazione semplificata, infatti, aiuta e guida molto più efficacemente il cliente all’interno dello store. Less is more, quindi, almeno per quanto riguarda le informazioni che crediamo siano necessarie per pubblicizzare il nostro prodotto.

Eda Ocak e Buket Bakiç

Quanto potere esercita il logo di un brand sul suo successo e sulla sua fama? Molto, almeno secondo Eda Ocak, partner & strategy director di ThinkNeuro e Buket Bakiç Marketing research della compagnia telefonica turca Turkcell.

Ocak e Bakiç hanno illustrato l’interessante evoluzione del logo della Turkcell nel corso degli anni: la compagnia, nata nel 1994, è il primo operatore del Paese sul Bosforo, rappresentando, a livello di servizi e copertura, un equivalente dell’italiana Tim. A caratterizzare il brand sin dalla sua nascita, una mascotte di colore giallo con due antenne. Nel corso del tempo, la mascotte è stata però eliminata dal logo, a favore dell’elemento che più la rendeva riconoscibile, ossia le due antennine che hanno trovato sempre più spazio, diventando la nuova icona della Turkcell.

L’azienda, proprio per questo, puntava a rendersi facilmente riconoscibile tramite il suo logo: un’operazione che sembrava voler facilitare, nel tempo, l’immediatezza di “lettura” del brand, riducendo sempre più lo spazio di rilevanza concesso al nome della compagnia. Giunti a una soluzione che garantiva sia al logo che al nome del brand uguale rilievo, Turkcell si è rivolta a ThinkNeuro, società di ricerca neuroscientifica, per osservare quale dei due elementi catturasse maggiormente lo sguardo delle persone.

ThinkNeuro si è avvalsa di rilevazioni con Eye Tracking, trentadue brain imaging e otto interviste approfondite su un gruppo di volontari equamente divisi tra uomini e donne e su diverse fasce d’età. Lo sguardo dei volontari, stando ai dati emersi della ricerca, è risultato essere quasi totalmente catturato dalla scritta “Turkcell” che aveva letteralmente oscurato il logo. ThinkNeuro ha quindi aiutato la compagnia telefonica a capire se il solo logo, all’interno di una campagna pubblicitaria, riuscisse a catturare abbastanza attenzione anche da solo. Sono state create due diverse campagne, una con logo e nome, l’altra con il solo logo e, grazie ai diversi test, i dati emersi hanno dimostrato che, almeno a livello non conscio, anche se non in una posizione rilevante nel logo del brand, il suo segno distintivo rimaneva scolpito nella mente delle persone, dimostrandosi così un elemento riconoscibile da chiunque. Proprio per questo, dopo le analisi di ThinkNeuro, Turkcell ha scelto di eliminare il proprio nome dal logo, lasciando solo le due antennine come bandiera e seguendo l’esempio di compagnie di successo del livello di Nike e Apple, che già da anni hanno lasciato parlare la propria icona più che il loro stesso brand name.

Tim Zuidgeest

Tim Zuidgeest, Co-Founder di ST&T Research, in un intervento dedicato ai diversi linguaggi utilizzati per advertising per la stampa e per la tv, ha fornito alcuni interessanti insight su ciò che funziona o meno nella comunicazione su entrambi i canali.

Stampa e tv, peraltro, sono spesso complementari all’interno di una pianificazione ADV e, se sfruttati per il loro specifico potenziale, possono garantire una soddisfacente penetrazione di pubblico. Zuidgeest lo dimostra con un esempio tratto da una campagna per una catena di supermercati olandese. L’obiettivo era quello di testare diverse combinazioni tra print adv e spot tv. A seguito delle rilevazioni è stato dimostrato che far precedere la diffusione di leafleat rispetto alla programmazione in tv è la stata la scelta più efficace. La messa in onda dello spot, infatti, aumentava il livello di engagement in chi era già stato esposto alla pubblicità stampata. La combinazione inversa, invece, aveva registrato un crollo di interesse dal punto di vista di engagement emotivo.

leaflet

Un consiglio fornito dallo speaker è stato di evitare di caricare di contenuti testuali i leaflet, poiché – come abbiamo osservato poco fa – un overload di informazioni rischia di confondere il consumatore, allontanandolo. Gli elementi grafici e gli elementi visivi di una campagna pubblicitaria, inoltre, sono fondamentali per coinvolgere il consumatore e guidarlo verso le informazioni più utili. possono essere di grande aiuto nel guidare il consumatore a osservare le informazioni che vogliamo far passare: Ne è un esempio lo dimostra l’immagine che vedete qui sotto, nella quale il bimbo rivolto verso il messaggio spinge lo sguardo automaticamente il lettore in quella direzione.

bambino neuromarketing

Lo stesso vale per uno spot. Ad esempio, quello della birra olandese Swinckels’ con protagonista Morgan Freeman: l’attore americano guarda fisso in camera per larghi tratti del filmato, rivolgendosi direttamente allo spettatore, coinvolto emotivamente anche grazie a uno zoom in avanti. Solo in un secondo momento Freeman si volta e afferra la birra – reale protagonista dello spot – inducendo lo spettatore a spostare il proprio sguardo sul prodotto.

Poco funzionale, invece, avvalersi dello zoom out, che allontana dal protagonista della campagna, come dimostra uno spot di una banca olandese. Quando nel filmato la camera abbandona l’uomo che fino a quel momento era stato l’unico focus di attenzione, le rilevazioni neurometriche registrano nel pubblico un forte calo di interesse e di coinvolgimento.

Lucia Carriero – Walter Limpens

Lucia Carriero, CEO di Neuroset, e Walter Limpens, Co-Founder di Neurensics, hanno entrambi trattato, seppur in modi diversi, l’apporto delle neuroscienze in ambito packaging. Lucia Carriero si è soffermata sulle diverse modalità di fruizione e percezione di un prodotto e del suo packaging a fronte di differenti possibilità di “contatto”, illustrando come questo possa influenzare le intenzioni di acquisto.

Si è notato che chi ha la possibilità di toccare un prodotto sviluppa un più forte coinvolgimento nei suoi confronti, nonché uno spiccata volontà di possesso, attivando inoltre differenti aree cerebrali rispetto a coloro a cui il contatto non è permesso. Quando poi il packaging consente al consumatore di intravedere il prodotto che contiene, lo sguardo della persona si concentra molto più su quest’ultimo; se, invece, il packaging non mostra il suo contenuto, le fissazioni di sguardo sono dedicate per la maggior parte al logo del brand.

Una confezione, per via del suo colore, della sua forma e del suo lettering, può alterare in maniera cruciale la percezione di un prodotto. Carriero espone l’esempio di un brand di yogurt che, per testare quale fosse il packaging più efficace, ne ha creati e testati di diversi formati e colori: il prodotto era lo stesso, le persone però lo guardavano di volta in volta in maniera diversa. Se un packaging rosso, basso e rotondeggiante era percepito come costoso, appetibile ed elegante, ma di bassa qualità e poco salutare, al contrario una confezione blu, più alta e snella dava l’idea che lo yogurt fosse più denso, più grasso, ma di ottima qualità. Carriero ha sottolineato come l’ideazione del packaging perfetto sia davvero complicata, perché il confine tra bello e kitsch è sempre molto soggettiva: importante, se non cruciale, è la componente di usability di ogni confezione. Se facile da aprire o usare, nonché esteticamente accattivante, riscuoterà sicuramente più successo di una meno accessibile.

L’intervento di Walter Limpens, invece, suggeriva un’idea fuori dagli schemi: creare, per i prodotti in vendita via e-commerce, un packaging specifico che potesse garantire una migliore fruizione online del prodotto agli utenti della piattaforma. Limpens lo ha nominato brain-friendly packaging, chiarendo come una diversa disposizione delle informazioni di solito stampigliate sul prodotto possa aumentarne la facilità di lettura e comprensione.

Limpens, a seguito di diverse rilevazioni, ha registrato che, paragonando il design classico, quello brain friendly e quello brain friendly su uno sfondo arricchito da visual, sia stato proprio il packaging da lui proposto, su uno sfondo neutro, ad esser il più apprezzato dagli utenti di e-commerce, poiché ci si avvicina fisicamente ad essi, rendendo l’esperienza di shopping più simile a quella “reale”. La simulazione mentale, spiega Limpens, è quel meccanismo che ci aiuta a progettare design più efficaci, prendendo in considerazione come verrà poi percepito il messaggio che vogliamo lanciare. Limpens porta come esempio una campagna di un ferro da stiro la cui prima versione vedeva una donna tenere l’oggetto con la mano sinistra: essa però risulta di difficile lettura e può generare un senso di fastidio. Le persone mancine, infatti, rappresentano una minoranza rispetto alle destrorse ed è difficile, per quest’ultima categoria, immedesimarsi in un’immagine simile.

Interessante, vero? Non è finita qui: stay tuned, presto arriverà un secondo articolo sulla Shopper Brain Conference.