Leggere, nonostante in Italia lo si faccia sempre di meno, è appurato che sia di grande aiuto per conoscere meglio il mondo, punti di vista diversi, aumentare le nostre competenze linguistiche. Secondo nuovi studi neuroscientifici potrebbe addirittura renderci persone migliori.

Non c’è da stupirsi, visto che già diversi studi hanno dimostrato che leggere molto aumenti la propria propensione a fare volontariato e a ritenere il voto come un’importante responsabilità sociale e personale. Ma come può un libro renderci più empatici, più disponibili a comprendere e relazionarci agli altri?

Tutta “colpa” dei personaggi, si direbbe: già ai tempi dell’Antica Grecia, Aristotele aveva capito che assistendo a una tragedia, gli spettatori si immedesimano profondamente nelle vicende vissute dai protagonisti della storia, provando sostanzialmente due sentimenti predominanti: pietà per il malcapitato, paura per se stessi. È naturale per noi pensare a come avremmo reagito agli imprevisti che i protagonisti della narrazione hanno trovato sul loro percorso.

Questo meccanismo diventa un vero e proprio esercizio di “prospettiva”, come spiega alla BBC lo psicologo cognitivo canadese Keith Oatley. Secondo lo studioso, leggere narrativa ci permette di impostare la mente su una sorta di “simulatore di volo”. Proprio come i piloti possono fare pratica di volo pur restando a terra, il nostro cervello è in grado di vivere esperienze diverse ogni volta che apriamo un libro: questo permette ai lettori di allargare le proprie abilità nel rapportarsi con gli altri, a capire meglio il loro punto di vista.


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Oatley spiega che una volta che il lettore comincia a immedesimarsi con i personaggi di una storia, comincia anche ad aspirare ai suoi stessi successi, a puntare i suoi stessi obiettivi, a provare gli stessi timori. Tutto restando comodamente seduto sulla poltrona di casa: questa catarsi permette di sviluppare una consapevolezza più profonda delle proprie emozioni e di come gestirle e utilizzarle nella vita di tutti i giorni.

Un aspetto affascinante di tutto ciò, è che i meccanismi neurali usati dal cervello per razionalizzare e fruire delle trame della narrativa sono paragonabili a quelli che usiamo nella realtà: se leggiamo di un personaggio che tira un pugno, spiega Oatley, si arriveranno le stesse aree del cervello che ci permetterebbero di tirarlo per davvero.

La lettura ci aiuta a immergerci nella pelle di un altro perché un libro tendenzialmente ci spiega il “non detto” che sta dietro alle azioni dei personaggi.

Come si può immaginare, però, dimostrare effettivamente che chi legge opere di “fiction” impari a essere effettivamente più empatico degli altri non è facile. Le persone spesso esagerano il numero di libri letti durante un anno. Per aggirare questo problema, durante un esperimento, Oatley ha consegnato a un gruppo di studenti una lista di libri fiction e non-fiction, chiedendo di indicare quali autori conoscessero. Nella lista c’erano anche alcuni nomi inventati.

Le persone selezionate per la fase successiva dell’esperimento, quelle che sostanzialmente non avevano barrato autori inesistenti tanto per far aumentare la lista di quelli conosciuti, sono state poi sottoposte al test chiamato “Mind in the Eyes“, in cui vengono sottoposte a ogni candidato le foto di un paio di occhi, da cui deve indovinare le emozioni che quello sguardo comunica scegliendo tra una lista di emozioni tra cui “timido”, “preoccupato”. Badate bene, le immagini sono spesso molto simili tra di loro e quasi neutrali a uno sguardo superficiale.

Chi aveva sostenuto di preferire molto più la narrativa rispetto a opere non fitcion, ha effettivamente registrato un punteggio più alto nel test rispetto ai lettori meno forti.

D’altronde anche un altro studio, portato avanti dalla psicologa del Social Neuroscience Lab dell’Università di Princeton, Diana Tamir, ha messo in luce come le persone che leggono molta fiction abbiano una più forte cognizione sociale, ovvero sono più bravi a comprendere davvero cosa prova e pensa chi sta attorno a loro. Facendo uno mappatura del cervello durante la lettura su alcuni candidati, è stato dimostrato che immergendosi in una narrazione si attivino delle aree del cervello che tentano di simulare il pensiero altrui.

Quindi chi legge tanto riesce a “leggere” meglio gli altri. Ma davvero questo rende i lettori forti persone migliori?

Un altro esperimento ha illuminato sulla possibile risposta: è stato chiesto a un gruppo di studenti di psicologia di compilare un questionario dopo aver letto una short story. Uno degli esaminatori, d’accordo con gli altri, ha poi fatto cadere una manciata di penne davanti ai ragazzi. Chi aveva raccontato di essersi immedesimato di più nella narrazione del breve testo, di aver empatizzato di più con i personaggi della storia, è stato anche chi per primo si è fatto avanti per aiutare gli scienziati a raccogliere le penne. Chi si era fatto trasportare dalla storia ha dimostrato di avere un comportamento più altruistico.

Ciò, ovviamente, non significa che chi non è abituato a leggere non sia empatico. Dall’altra parte, però, è sicuramente vero che la narrativa risulta essere una palestra efficace per allargare i propri orizzonti emozionali e percettivi, per capire cosa si prova a essere altro da sé.


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Lo dimostra l’ultimo esempio a cui faremo riferimento: ricercatori olandesi hanno sottoposto a un gruppo di studenti, divisi in due gruppi, un articolo su manifestazioni in Grecia, sul giorno della liberazione dell’Olanda o il primo capitolo di Cecità di Jose Saramago. Quest’ultimo testo racconta di un uomo che, nella sua macchina, perde improvvisamente la vista. Volontari lo riconducono a casa, mentre un passante promette loro di riportargli indietro l’auto. Non lo farà: gliela ruberà. Ebbene, gli studenti a cui era capitato il primo capitolo di Cecità hanno registrato un’impennata nei livelli non consci di empatia subito dopo la lettura. Una settimana dopo, i livelli erano anche più alti di quelli registrati dopo il test.

Certo, è capitato a tutti di immedesimarsi anche con i protagonisti di una notizia al telegiornale, ma la fiction è uno dei pochi stratagemmi in grado di mostrarci l’evoluzione della storia di una persona in un arco temporale molto lungo e variegato. Inoltre, grande spazio è dato all’interiorità dei personaggi, cosa che ovviamente il giornalismo non può fare sempre. E infine, è forse sospendendo il nostro giudizio razionale, che riusciamo davvero a scavare a fondo, analizzare e riconoscere meglio emozioni e comportamenti che potremmo ritrovare nella quotidianità, così da avere un rapporto migliore con chi ci sta intorno.