(ATTENZIONE: ALCUNI DEI TERMINI CHE SEGUONO POTREBBERO URTARE LA VOSTRA SENSIBILITÀ).

Aprile 2020.  Piena pandemia. Sul gruppo whatsapp che è diventato praticamente la nostra sala riunioni d’emergenza, un collega scrive: “Grazie a tutt*!”

“Tutt*”?? – mi chiedo io che sono una Seenager, tutta piccata, e aggiungo tra me e me: “Ma che ci vuole a dire ‘Grazie a tutti e tutte!?’ ”

Poi però ci penso bene.

E, anche se sono certa che il mio Prof di italiano del classico avrebbe le convulsioni, dopo averci ragionato un po’, mi godo la rivelazione: la scelta di finire una parola con un asterisco, oggi e adesso, è una cosa bella.

È una umile prova concreta del fatto che le implicazioni, le discussioni, o le semplici prese di coscienza sull’identità di genere, sono oramai sulla bocca e sulla tastiera di noi gente comune. Un modo contemporaneo, a suo modo gentile, di includere chiunque in qualunque forma di genere si identifichi. Un modo democratico di sostituire il maschile, che sovrasta solitamente il tutto con i suoi plurali inclusivi, attraverso la rapida trasformazione di una parola in qualcosa di nuovo e di neutro. Un termine nuovo che non privilegia alcun genere in una lingua come la nostra che – ammettiamolo – ‘commette’ parecchio sessismo inconsapevole.

L’Italiano, dolce, morbida e prestigiosa lingua dei grandi, di preferenze di genere ne fa eccome, e ne dà e ne toglie, di privilegi. Questo suo limite ci è forse così tanto familiare da scivolare e sostare tranquillo nel subconscio, ma se vi poniamo attenzione, ci accorgiamo che la nostra è una lingua disseminata di trappole e convenzioni silenziose per cui – sulla declinazione femminile delle cose del mondo – aleggia spesso un alone sminuente o negativo. Non dichiarato ma implicito. Affermazione esagerata? Facciamo un rapido test:

Buongiorno, sono il Segretario di Tizio. Sono la Segretaria di Tizio.

Salve, sono il Cuoco. Salve, sono la Cuoca.

Piacere, sono il Sarto. Piacere, sono la Sarta.

Benvenuto, sono il Bibliotecario. Sono la Bibliotecaria.

Il Veterinario. La Veterinaria.

Dal maschile al femminile della stessa parola, ci si sono parate davanti figure lievemente diverse. Siamo passati dall’incontrare individui di chiaro e indubbio rilievo, autorevoli, stellati e riconosciuti come il Segretario, il Cuoco, il Sarto e il Veterinario, a visualizzare figure più semplici, operative, bonarie, devote e solerti. Dal valore percepito, in qualche maledetto modo, minore.

E come dice mio nipote di 3 anni, “Zia, quetto no è bello”.

Già la saggista e linguista Alma Sabatini (e se il tema vi affascina Sabatini, che è stata una grande attivista femminista impegnata in numerose battaglie per i diritti civili, ha scritto dei testi illuminanti e molto interessanti su questo tema) a metà degli anni Ottanta scriveva nel suo fascicolo: “In questo particolare momento in cui gli enormi cambiamenti sociali che sono avvenuti e stanno avvenendo nei ruoli dei due sessi premono per avere un riconoscimento linguistico, è importante favorirlo e aiutarlo, dando indicazioni per una liberazione da stereotipi banalizzanti e mutilanti e da segnali linguistici che rivelano e rinforzano il predominio maschile.” 1

Per me non aveva torto, né ha smesso di non averne.

In questa nostra lingua neolatina, prima di tutto figlia dell’impero romano (e sia ben chiaro non dell’imperatrice), tutta la realtà viene descritta e consegnata attraverso la lente relativizzante del maschile o del femminile. E, per una concatenazione infinita di heritage culturale e religioso, etico, sociale, filosofico e antropologico di cui la lingua Italiana è il prodotto, al nostro orecchio succede quel che succede al nostro pensiero, per cui la “variante” femminile di un termine maschile finisce per godere di meno valore e autorevolezza, in maniera automatica e stereotipizzante. A tal punto che, spesso, per evitare a priori il problema, oggi le donne nelle posizioni di rilievo tendono a descriversi con il ruolo che le contraddistingue al maschile: “Sono Tizia Caia, la Sindaco di questa città.”

Tizia preferisce aggirare temporaneamente la sua femminilità pur di trasmettere autorevolezza.
E se ci penso, lo faccio molto anche io.

“Sono il copy writer, sono un creativo, sono un gemelli.”

E se mi ascolto bene, “no è bello.

La mia amica Kati, architetta (architetto?), insegnante e musicista (ahhh, che sollievo) con cui amo molto confrontarmi, è in totale disaccordo con me.

Appena le ho parlato della differenza implicita tra magistrati e magistrate, Kati è saltata su con questa esternazione: “Silvia, scusami ma a me sindaca-avvocata-architetta-magistrata non piacciono come termini. Il ruolo può restare al maschile, anche perché il latino aveva il genere neutro, e la donna non era così marginalizzata nella società. I veri misogini erano i greci che hanno avuto comunque un’enorme influenza sulla cultura occidentale e il suo maschilismo. Si potrebbe obiettare inoltre che, ad oggi, quando qualcosa è fatto male è una “cazzata” (attributo maschile). Mentre quando è bello e riesce bene è una “figata” (attributo femminile)”.

In Kati ritrovo sempre una enorme lucidità culturale e linguistica e una prontezza al dibattito che in lei amo alla follia, ma anche un’accettazione di paradigmi che, in questo contesto, forse è ora di andare almeno a solleticare.

Torno alla mia “Tizia Caia, Sindaco della città”.

Scrive Margherita Marcheselli, autrice laureata in filosofia e appassionata di pensiero, linguaggio e neuroscienze: “Alcune persone pensano che queste cose non siano importanti, che, in fondo, si tratti solo di formalità. ‘Alla fine le donne possono fare quello che desiderano, oggi come oggi, e quindi chi se ne importa di come vengono chiamate, sù, quante storie!’. Naturalmente io non la penso affatto così. Il linguaggio è una conseguenza del pensiero; dire una cosa in un certo modo invece che in un altro significa pensare in un modo o in un altro. Dire “sindaca” significa riconoscere che quella persona è una donna e che riveste quel ruolo. Significa rispettare quella persona, la sua individualità, il suo percorso, la sua storia. Nello stesso tempo orienta nella consapevolezza del fatto che sia uomini che donne svolgono quel lavoro, a parità di funzione e di prestigio.” 2

E prosegue, in un altro saggio, Sabatini: “La lingua italiana, come molte altre, è basata su un principio androcentrico: l’uomo è il parametro attorno a cui ruota e si organizza l’universo linguistico. Esempio paradigmatico: la stessa parola «uomo» ha una doppia valenza perché può riferirsi sia al «maschio della specie» sia alla «specie stessa». Mentre la parola «donna» si riferisce soltanto alla «femmina della specie» 3.

Non so voi, ma io non potrei trovarmi più d’accordo.
La “relatività linguistica” (che è un altro nome per l’ipotesi di Sapir–Whorf su come la struttura di un linguaggio influenzi la percezione e cognizione del mondo di chi la parla – ve ne accenno tra poco!) fa male alla società. Fa male allo spirito.

La nostra è una società in cui Dio non esiste, oppure esiste ma è decisamente Padre. Solo i fricchettoni new age parlano di Dio Padre-Madre, e ci fa strano…

La nostra è una società in cui – concedetemi la banalità dell’esempio – è normale inveire con furia esclamando “porca puttana” e “porca troia”. Ma che scoppia a ridere se gli si lancia, così per cambiar le carte in tavola, l’appena più innovativa esclamazione a disposizione: “porco cazzo!”…

È una società che, uscendo dalla leggerezza dell’esempio precedente, assiste sì indignata e addolorata. Ma anche, in qualche modo, assuefatta ai continui femminicidi in nome del possesso, del diritto e del controllo assoluto sulle Donne: sulla loro dignità, sul loro utero, sui loro libri, sui loro sogni, sulla loro verginità, sulla loro sessualità, sulla loro identità, sui loro abiti, sui loro figli, sulle loro scelte, sul loro futuro, sui loro primi baci, sulle loro opinioni, sulla loro libertà, sui loro splendidi, sacri capelli lunghi.

E mi sale il dolore.

E mi sale una voglia di purezza e di equanimità linguistica che… levatevi!

Ma torniamo all’italiano e al suo inconsapevole sessismo.


Il tema della lingua come riflesso della nostra visione dei fatti – invece che come loro riflesso diretto, aveva portato già nel 1929 a una interessantissima teoria sviluppata da due americani, il linguista antropologico Edward Sapir e il suo studente Benjamin Whorf. La controversa teoria Sapir-Whorf4 ipotizza che il linguaggio di un popolo influenzi il suo pensiero piuttosto che il contrario. Questo spiega come persone di culture diverse pensano in modo diverso a causa delle differenze nelle loro lingue.

È una teoria molto affascinante, che suggerisce un mare di rilevazioni a chiunque abbia la gioia e la fortuna di conoscere altre lingue.


In inglese, per fare un esempio, i nomi comuni non hanno genere maschile e femminile; l’articolo determinativo “the” abbraccia tutti i termini al plurale e al singolare, e il maschile e il femminile si incontrano, di base, solo nei pronomi e negli aggettivi possessivi al singolare. “She” e “He” si fondono in “they” quandono escono assieme.

Ah, e c’è una chicca: da grande e storica potenza militare navale, la Gran Bretagna esige che ogni nave sia considerata femmina, in conseguenza di una tradizione che vede da millenni l’imbarcazione come materna e divina entità in grado di portare in salvo gli uomini a casa e sulla terra ferma. “She”, the Ship. Lei, la nave.

Potrei andare avanti per giorni, tra le magie di alcune lingue che hanno superato sul nascere queste disparità, e gli incantesimi di altre che fanno attenzione al femminile o al maschile persino durante un gerundio (la magnifica lingua Araba). Ma mi fermo qui, per rispetto al vostro tempo, sperando di aver solleticato l’anima e il cervello di qualcuno di voi.

Alle donne oggi è affidata la possibilità di evidenziare le trappole sminuenti di una lingua che oggettivamente distingue tra il valore di un termine al maschile e del suo identico corrispondente al femminile.

Come? Non sottostando agli alibi e alle resistenze linguistiche ereditate fin qui.
“Sono Tizia Caia, la Sindaca di questa città.”

E a noi come esseri umani (maschi, femmine, e tutti i membri del meraviglioso arcobaleno LBGTQIA+) è affidato un compito. Quello di non dimenticare mai che nella lingua spesso sono sedimentate le opinioni della comunità a cui apparteniamo e che queste opinioni ci condizionano da secoli e secoli.


Ma dal momento che la lingua vive proprio attraverso l’uso attivo, perché non godere del privilegio di poterla vivificare e rinnovare con un uso permeato da nuove consapevolezze?

Possiamo scegliere di parlarla facendo attenzione a che venga usata nell’amore e nel rispetto di ciò che esiste e che vive. A prescindere da quale genere esso appartenga.

Possiamo diventare portatori sani di una lingua rinnovata e non intossicata da troppo sessismo (inconsapevole e consapevole).

Auguro buona consapevolezza a tutt*.

Potrebbe essere molto interessante vederne i riscontri nel tessuto del nostro mondo tra qualche tempo.

1 A. Sabatini, Raccomandazioni cit., p. 15.

2 M. Marcheselli, “Genere: maschile o femminile?”, 12 Marzo 2022, www.8pagine.com, https://8pagine.com/femminile-e-maschile/

3 A. Sabatini, Il sessismo cit., p. 24. Consultando il Grande dizionario della lingua italia (libro)

4 Per approfondimenti sulla teoria S.W., vi suggerisco una lettura e un film:
Per la lettura vi suggerisco la breve ma illuminante disquisizione di Yasmina Pani, insegnante di lettere che scrive di questa teoria linguistica nel suo blog con l’articolo “La lingua determina il modo in cui pensiamo? L’ipotesi Sapir-Whorf e il relativismo linguistico”, https://yasminapani.it/linguistica/ipotesi-sapir-whorf/

Per il film vi suggerisco “ARRIVAL” (Denis Villeneuve, 2016), dove la lingua a cerchi senza inizio e senza fine di un popolo profondamente alieno scatena nella linguista impegnata a decodificare i loro messaggi una nuova forma di pensiero e di percezione del tempo.

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