Già nell’800, prima dell’avvento delle neuroscienze, il poeta americano H. W. Longfellow riteneva che la musica fosse il linguaggio universale dell’umanità, e in quanto tale è effettivamente in grado di stimolare la sfera più primitiva ed emozionale di ognuno di noi. Il suono, infatti, rientra tra i cosiddetti “fattori intangibili”, i quali, pur stando al di sotto della soglia di consapevolezza, condizionano la nostra percezione rispetto a un luogo o un oggetto. La musica definisce un contesto o un prodotto, rende riconoscibile un brand e diventa parte integrante della sua personalità.

Se hai pensato a Intel e McDonald’s, hai avuto la prova che il sound branding funziona, ma c’è di più. Nel retail, all’interno di una strategia di marketing sensoriale, il suono se utilizzato correttamente può arrivare a determinare l’affluenza e il tempo di permanenza in un punto vendita, incrementare il livello di attenzione dei consumatori, aumentare la propensione allo shopping o stimolare l’acquisto d’impulso. Viceversa, se il suo potere non è sfruttato con cognizione di causa, può distrarre, infastidire e allontanare.

 

 

Il sound branding (chiamato anche audio branding, sonic branding o acoustic branding) è uno strumento di marketing che diventerà determinante in futuro e chi comincia adesso vedrà i restituiti i propri sforzi nei prossimi anni. Ecco perché abbiamo deciso di inviare delle domande e approfondire la tematica con Luigi Mastandrea, Sound Designer, Social Media Manager, Docente di Management e Comunicazione presso IED Milano, nonché uno dei pochi esperti italiani.

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1 – Riflettendo sugli aspetti cognitivi e sugli effetti emozionali del suono sul consumatore, in che modo il Sound Branding si lega alle neuroscienze, e quindi alla Brand Identity?

Fare brand attraverso il suono vuol dire connettere il brand e il suo pubblico attraverso il primo senso che si sviluppa in un essere umano, l’udito. La percezione dei suoni inizia già in fase prenatale: prima ancora di “vedere”, si ascolta, e si ascolta ad occhi chiusi. La storia personale di ognuno di noi è anche una storia di suoni emessi dagli oggetti che hanno accompagnato e accompagnano continuamente la nostra esistenza. Non solo musiche quindi, come si potrebbe facilmente immaginare, ma anche emissioni sonore legate a oggetti. Penso subito agli squilli del telefono, ai suoni degli sportelli di una automobile, al cuscinetto a sfera di una bici, agli avvisi nelle stazioni ferroviarie o negli aeroporti. Tutti questi suoni possono essere legati indissolubilmente anche a dei brand, nulla di più facile eppure sembriamo non accorgercene.

Proviamo a immaginare al suono di accensione dei computer Apple, è una percezione forte quanto quella del logo, e opera anche ad occhi chiusi, si incunea nella memoria e diventa qualcosa di più di un semplice avviso di accensione. Come diceva John Cage, le orecchie non hanno palpebre, sono sempre in funzione, anche mentre si dorme. Il suono costituisce un veicolo formidabile per la comunicazione, ma con dei limiti: esige una esperienza di fruizione tutta temporale e non tollera facilmente le sovrapposizioni. Un messaggio affidato al suono deve essere fruito in un tempo relativamente lungo e in condizioni di basso inquinamento acustico. Soprattutto, e anche per ovviare a questi inconvenienti, è necessario che figure professionali specifiche si occupino di tutti gli aspetti legati al suono di un brand. Perché un brand “suona” e spesso, anche ai più alti livelli, non ci si pone la domanda “come suona il mio brand?”. Con il risultato ovvio di affidarsi al caso e alle sue insidie, e di costruire esperienze di brand incomplete, di minore impatto.

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2 – Negli ambienti più lungimiranti si parla del suono e della musica come fattore intangibile e come leva di business, ma quanto e come influisce la comunicazione sonora nel retail e nella customer experience?

L’influsso della comunicazione sonora influisce al di sopra di ogni dubbio in molti momenti del marketing mix. Retail, customer experience, perfino nel packaging. È un valore aggiunto che si pone alla base dell’esperienza fenomenica di un brand. L’esempio più banale riguarda un esperimento compiuto in un negozio di vini in Inghilterra: diffondere musica francese aumentava le vendite di vino francese, mentre la musica tedesca orientava le scelte degli acquirenti sui vini tedeschi. Ma il discorso va esteso: comunicare con il suono vuol dire entrare nel vivo dei video promozionali, stimolandone il ricordo, vuol dire curare l’esperienza delle applicazioni mobile, inserirsi nel mercato della musica con testimonial di successo o produzioni direttamente riconducibili al brand, come nel caso della Red Bull Music Accademy.

L’incarico affidato a Bob Sinclar per un remix di Libertango di Piazzolla (la musica che accompagnava i vecchi spot tv) ha di fatto creato una nuova identità del brand “Vecchia Romagna”, mantenendo al tempo stesso una continuità con il passato. La musica ha in pratica fatto da ponte tra generazioni di fruitori del prodotto, portandolo all’attenzione dei più giovani. Volendo sfruttare al meglio i mezzi offerti su piattaforme mobile, esistono esperienze molto interessanti nate dall’incrocio di Shazam con altri media. Si può, ad esempio, invitare il pubblico a usare Shazam durante la fruizione di uno spot per accedere a contenuti esclusivi, come il backstage di un viral video (è il caso di Vodafone) oppure ad un brano musicale di una celebrità scaricabile gratuitamente. O è possibile, sempre con questo sistema, indirizzare il pubblico verso un sistema di acquisto online.

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3 – Ci riporti qualche esempio di successo o qualche esperienza personale?

Ho già menzionato Vecchia Romagna e Vodafone, di sicuro operazioni nate su basi solide e di grande efficacia. Ai tempi in cui mi occupavo di Formula 1, mi è capitato di assistere a una grande operazione di audio brand sviluppata da Lotus F1 Team insieme ai Daft Punk. Un progetto di ampio respiro, che ha compreso dei mini-video con frammenti di brani dall’ultimo album dei Daft Punk, una loro apparizione in persona, ovviamente con i caschi, al Gran Premio di Montecarlo del 2013 e l’hashtag stampato sulle due monoposto, #getlucky. Coerenza, ironia e uso massiccio di suono e musica nel contesto della comunicazione digitale e non.

4 – Nonostante la ormai solida base empirica dimostrata, allo stato dell’arte i mercati sono ancora poco recettivi al marketing del suono. In Italia com’è percepita questa scienza e quali possono essere gli sviluppi?

L’Italia ha enormi potenzialità nel marketing del suono, sia per la ricchezza e la varietà del suo patrimonio industriale che per le capacità creative di musicisti e sound designer italiani.

Senza dimenticare che la musica italiana, dal barocco veneziano fino alla lirica passando per la italo disco, è uno degli elementi più profondi del fascino legato al made in Italy. Ma così come ci permettiamo il lusso estremo di mandare in rovina gli scavi di Pompei, spesso tralasciamo cinicamente anche tutta la comunicazione di brand che passa attraverso il senso dell’udito. Di fatto, anche nei budget di comunicazione più sostanziosi, mancano le voci di spesa per rispondere alla domanda “come suona il mio brand?”. La progettazione di un logo sonoro nella stragrande maggioranza dei casi non c’è, e se c’è è spesso una sorta di aggiunta al lavoro del montatore audio in un video. Altrettanto spesso, la musica di un video commerciale è un brano scaricato per pochi dollari che incontra i gusti personali del committente. Per esperienza, vedo cura maniacale dei dettagli visivi e un alto livello di lassismo nel considerare tutto ciò che arriverà al pubblico attraverso musica e suono. Qualcosa certo si muove, la consapevolezza molto lentamente si fa avanti, le tecnologie digitali sono sempre più duttili e facili nell’utilizzo: unici limiti, creatività e cultura di committenti ed esperti di marketing.

Intervista a Luigi Mastandrea