Intervista a Laura Tota – Curatrice d’arte
Abbiamo chiesto a Laura Tota, curatrice d’arte, di raccontarci il suo rapporto con la fotografia e del ruolo sempre più importante che la fotografia autoriale riveste nelle strategie di comunicazione dei brand.
Il nostro cervello è stimolato in continuazione da un numero altissimo di input sensoriali, ma la capacità cerebrale di trattenere e decodificare gli input è limitata. Avviene quindi che la parte non conscia e velocissima del cervello attui una sorta di selezione, analizzando solo parte degli stimoli in arrivo in base alla loro rilevanza rispetto alle necessità fondamentali per la sopravvivenza (combattere-scappare-riprodursi-nutrirsi) e a priorità dettate da eventuali obiettivi prefissati.
Alcuni stimoli però sono in grado più di altri di attirare l’attenzione e attivare il coinvolgimento cerebrali, già prima che intervenga la parte consapevole e razionale del pensiero.
Le immagini hanno la capacità di catalizzare il nostro sguardo e di emozionare perché, nell’evoluzione della nostra specie, è proprio attraverso la vista che un tempo eravamo in grado di percepire ed evitare pericoli e, grazie alla decodifica della mimica facciale di chi incontravamo, (in questo articolo puoi trovare un approfondimento sulla dinamica dei neuroni specchio) riuscivamo a percepire eventuali intenzioni negative. Il linguaggio e ancor più la scrittura, infatti, sono abilità acquisite successivamente.
Il cervello reagisce agli stimoli dando loro significato ed importanza in base alle proprie esperienze e memorie, e – come ben sanno i semiologi – ogni immagine suscita in noi la creazione di una storia ed il collegamento ad una fitta rete di altre rappresentazioni visive mentali.
Quando esse sono particolarmente potenti, come nel caso di forme simboliche ed archetipiche, l’impatto che hanno su attenzione, coinvolgimento e memorizzazione cerebrali si rafforza ulteriormente.
Nel caso di immagini artistiche, come le fotografie autoriali, la percezione mentale dello spettatore va ben oltre la decodifica letterale della rappresentazione visiva: la percezione viene anche influenzata dal personale tratto stilistico dell’autore che veicola la sua interpretazione emotiva dell’oggetto della fotografia così come, allo stesso tempo, lo spettatore interpreta a sua volta l’immagine attingendo al proprio mondo emotivo interiore.
A volte la comunicazione di Brand si rivolge ad artisti affermati perché ne interpretino l’essenza: quando lo specifico mondo artistico e visionario dell’autore è coerente con il mondo valoriale della marca, questo produce stimoli visivi estremamente potenti (un esempio rilevante è la case history di Bic che puoi trovare qui).
Da quali emozioni e ricordi nasce questa tua passione?
In quanto millennial, la mia vita è sempre stata legata alla fotografia. Ricordo la prima Olympus Mju-1 (una compact camera super tecnologica per l’epoca) che aveva comprato mio papà a metà anni ‘90 spendendo una cifra spropositata per quel periodo. Quando la portai con me in gita al liceo, mi sentii allo stesso tempo investita di una grande responsabilità ed eccitata all’idea di poterla utilizzare in modo creativo: a quei tempi i cellulari non possedevano ancora una fotocamera (mamma mia come mi sento vecchia!).
Per me, avere quell’oggetto tra le mani (sebbene a pellicola e quindi da utilizzare con grande parsimonia) voleva dire vivere quei giorni in maniera diversa.
A 25 anni ho poi comprato una Canon70d con una serie di lenti che ancora possiedo: la cara Olympus mi andava stretta e così ho iniziato a scattare con più consapevolezza e ad attribuire alle foto che facevo una mia personale visione, cosa che mi ha aperto un mondo e che mi ha spinto ad avvicinarmi più allo studio della fotografia che alla sua produzione.
Quali sono i criteri a cui ti ispiri nella selezione delle opere?
Partiamo da un concetto che è fondamentale: non esistono foto “belle o brutte”/ “buone o cattive”: esistono foto adatte o meno a declinare un determinato valore/concetto. Occupandomi per lo più di progetti fotografici collettivi, il concept diventa fondamentale e molto spesso costituisce la discriminante per scegliere se introdurre uno scatto/lavoro nel progetto. Con l’avvento di software, macchine fotografiche e smartphone sempre più performanti, è diventato praticamente impossibile scattare immagini tecnicamente realizzate male e ad ogni modo persino l’errore fotografico può essere trasformato in diventare una risorsa infinita per raccontare nuove storie. Il valore di una foto sta in ciò che vuole e riesce a raccontare: lo conferma il dilagare di corsi sulla progettualità, sulla narrazione visuale e sul photoediting (ovvero sulla selezione finale degli scatti, non sulla loro realizzazione). Ci avete fatto caso?
Nella tua carriera ti è capitato di collaborare con brand ed aziende?
Ho concluso lo scorso ottobre un progetto per la realizzazione di un Art Calendar per il brand “Casa Milo”, uno storico pastificio pugliese, coordinato dall’agenzia “Yello!” Di Bari.
Per rappresentare la pasta, ho selezionato 12 fotografi emergenti italiani che l’hanno resa protagonista di altrettanti scatti iconici.
Il lavoro è stato molto divertente, i fotografi hanno accettato la sfida con grande entusiasmo e sono riusciti a rappresentare il prodotto la pasta declinando in modo originale la propria ricerca.
Come cambia il tuo lavoro quando approcci un brand?
In questo caso, ho rivestito sia il ruolo di curatrice, cercando di raccontare una storia e creando un filo narrativo tra i mesi e la sequenza degli scatti, sia di account: i 12 scatti erano a tutti gli effetti dei lavori commissionati, quindi con la necessità di mantenere un equilibrio tra rispetto della creatività autoriale e valorizzazione del prodotto Un doppio sguardo, insomma, che deve coesistere in maniera armoniosa nello scatto e che deve valorizzare il dialogo tra questi due “mondi”.
Ah, dimenticavo: deve anche piacere al pubblico, che sembra aver apprezzato molto il progetto!
Nella tua esperienza perché la fotografia è importante e strategica per la brand image?
In un mondo iperconnesso, spersonalizzato, in cui la maggior parte delle informazioni sono veicolate attraverso le immagini, la capacità di interpretare e trasmettere i valori di un brand attraverso una forma d’espressione artistica così popolare come la fotografia fa la differenza. Nel caso di un prodotto consumer come la pasta, per esempio, la sua declinazione attraverso l’estetica di un preciso fotografo non solo eleva il prodotto in sé, ma lo carica di quegli stessi valori che identificano quell’autore come degno di riconoscibilità e autorevolezza artistica. Ormai, la classica still life photography è sempre più relegata ai cataloghi commerciali (e a volte neanche più a quelli) e sono sempre più numerosi i brand scelgono di affidare le proprie storie a firme prestigiose della fotografia, che non solo non si nascondono più dietro l’anonimato ma che amplificano i valori del brand.
Ragion per cui ritengo che i progetti autoriali saranno sempre più ricercati dai brand e non solo.
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