Cosa ci siamo portati a casa dal secondo giorno di WOBI – World Business Forum di Milano?
Siamo qui per raccontarvelo, dopo aver già approfondito quattro interessanti interventi estratti dal primo appuntamento di questa due giorni dedicata all’esponenziale, tema simbolo di una realtà – business e non – in continua e rapida evoluzione e che i diversi speaker hanno declinato secondo il loro specifico punto di vista.
Ti sei perso il nostro primo articolo su WOBI? Nessun problema, puoi leggerlo qui.
Daniel Goleman
A riprendere il discorso sull’esponenzialità come caratteristica cruciale dell’odierno panorama business è stato Daniel Goleman, scrittore e psicologo americano esperto in neurologia. Per ottenere performance straordinarie, in un mondo sempre più specializzato e competitivo, secondo Goleman è decisivo l’apporto di un fattore chiave come l’intelligenza emotiva, o Emotional intelligence (EI), già titolo di uno dei suoi più grandi successi editoriali.
Come spiegato dal palco di WOBI, oggi risulta davvero essenziale comprendere e puntare sul modo in cui riusciamo a “gestire” noi stessi da un punto di vista emotivo, specie se il nostro ruolo ci richiede di essere leader e di prendere decisioni complicate. Non sono infatti le hard skill quelle che ci definiscono come individui, bensì tutto il variegato spettro di sfumature che dà forma al nostro carattere. Introspezione, ironia o spirito critico: tutte peculiarità che ci consentono di differenziarci da chi potrebbe condividere il nostro stesso percorso di formazione, la stessa nazionalità, lo stesso nome eppure avrà sempre un diverso sguardo sulla realtà che ci circonda.
Ma cosa si intende esattamente con intelligenza emozionale? Goleman traccia un insieme di componenti che, sommate, creano la cosiddetta EI: oltre alla capacità di saper “gestirsi” emotivamente – che comprende qualità come l’adattabilità, un atteggiamento positivo e una visione orientata al miglioramento – cruciale risulta anche dimostrarsi “self aware”: essere sicuri del proprio potenziale, delle proprie capacità e dei propri valori, anche perché proprio questi identificano sia noi come individui sia le nostre attività lavorative. Altrettanto importante è la social awareness, cioè come ci rapportiamo con l’ambiente che ci circonda, profondamente legata al relationship management che ci guida quando dobbiamo relazionarci con colleghi, collaboratori e altre figure professionali: la caratteristica chiave da mettere in campo è l’empatia, con cui secondo Goleman riusciamo davvero a entrare in contatto con chi ci sta attorno.
Lo scrittore tiene a sottolineare anche che, per quanto determinate predisposizioni siano innate, l’intelligenza emotiva può anche essere appresa, quantomeno coltivata nel tempo.
Todd Davis
“Hell isn’t a place, it’s other people”. Fa sorridere la platea di WOBI Todd Davis, Chief People Officer per Franklin Covey, discutendo efficacemente sui diversi aspetti che influenzano il nostro lavoro. Ma quali sono?
Le persone, innanzitutto: quasi sempre i nostri risultati professionali diventano raggiungibili soprattutto con e attraverso le competenze, i caratteri e le visioni di molte altre individualità oltre a noi. Non è sempre semplice averci a che fare, anzi: le persone difficilmente cambiano, difficilmente si dimostrano influenzabili, difficilmente sono disponibili ad accettare eventuali critiche.
Appurato ciò, quante volte diamo verdetti simili su noi stessi? Todd Davis infatti sottolinea come sia necessario, invece di andar sempre a scovare un capro espiatorio nelle persone con cui ci relazioniamo, applicare un giusto focus anche sulla nostra personalità, sulla nostra inclinazione a cambiare, sulla nostra capacità di metabolizzare una critica. Un cambio di prospettiva a riguardo può davvero modificare il modo in cui percepiamo e consideriamo chi o cosa ci sta intorno: siamo molto più efficaci, come persone e come figure professionali, se prima riusciamo a concentrarci sul nostro comportamento quotidiano.
Per Davis risulta allora essenziale sviluppare una certa capacità a comprendere e proporre feedback, per migliorare e consentire agli altri di farlo. Nella parola stessa – dall’inglese feed, nutrire e back, fare da supporto – si nasconde il significato intrinseco del termine: un feedback non è un colpo di scure alla nostra autostima, ma uno spunto che ci viene offerto per mettere a fuoco dettagli da rivedere, di cui magari non ci eravamo accorti. È chiaro, ci sarà sempre qualcuno pronto a farlo con intenti negativi, ma forse è bene imparare a presupporre le buone intenzioni di chi vuole soltanto spingerci a guardare le cose con occhi diversi.
Martha Rogers
Che cos’è un brand oggi? A stabilirlo, sempre più spesso, sono i clienti: questo il messaggio lanciato dal palco di WOBI da Martha Rogers, esperta in business strategies e customer care, che vuole ribaltare i rapporti di forza tra chi vende e chi sceglie di acquistare. Il valore di un’azienda, in un mondo che vive e si nutre soprattutto di network, trova infatti le sua fondamenta nel valore che i propri consumatori le attribuiscono. D’altronde, ammette la Rogers, “what matters today is what costumers say to each other about us”.
Per questo, infatti, risulta importante sempre più importante lavorare e costruire con perizia la propria costumer base. Un compito complesso, anche per la visione spesso distorta che CEO e dipendenti hanno del brand che gestiscono o per cui lavorano: l’80% dei CEO, stando alle statistiche che Rogers presenta, è infatti convinto che la propria esperienza di customer care sia di qualità superiore. Peccato però che soltanto l’8% dei clienti ritenga di aver mai beneficiato di un servizio dedicato di alto livello. Un aspetto molto problematico, soprattutto se si considera, come specifica l’esperta, che un’esperienza negativa tutti sono pronti a condividerla, mentre raramente si parla di ciò che abbiamo vissuto positivamente.
Quale può essere una soluzione efficace? Eliminare la frizione tra un brand e i suoi consumatori, cancellando tutti quegli ostacoli che lo rendono distante o poco affidabile. Proprio dall’affidabilità di una società e di un’azienda può cominciare questo percorso di “redenzione” nei confronti dei propri clienti, che è poi importante mantenere e alimentare continuando a fornir loro contenuti e prodotti rilevanti, di valore. Cruciale è soprattutto assicurarsi che il proprio brand crei un sentimento cardine per ogni organizzazione: la fiducia.
Secondo i sondaggi, infatti, i consumatori americani sarebbero disposti a spendere addirittura 11 dollari in più ogni mese per poter avere accesso a un servizio su cui poter fare affidamento. Dimostrarsi un “trustable brand” rivela grandi vantaggi: profitti a breve termine, certo, ma anche una forte brand equity sul lungo periodo.
Per capire se siamo sulla buona strada nella creazione di un’ottima costumer care, Martha Rogers invita a porci una semplice domanda: come ci si sente ad essere i nostri clienti?
Comments by Gabriele Sebastiani