Probabilmente adesso starai leggendo tramite un dispositivo connesso, che alle volte ti tiene incollato al suo schermo e altre volte ti fa esasperare. Non importa se stai utilizzando un iPhone in metro o il tuo vecchio laptop seduto comodamente in un bar, ogni oggetto, servizio o spazio che utilizziamo quotidianamente prevede un’interazione con l’utente che, se progettata bene, renderà l’esperienza memorabile.

L’interaction designer si occupa di questo, e con la diffusione dell’Internet of Things e degli oggetti intelligenti questa figura sarà sempre più fondamentale all’interno delle aziende.

Simone Rebaudengo è senior interaction designer presso Frog Design a Shanghai. È partito dal Politecnico di Torino, si è spostato per alcuni anni in Europa e adesso è giunto in estremo oriente. Ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti per i suoi progetti e insegna “Secret Life of Objects”​ a Copenhagen. Lo abbiamo contattato per guidarci nell’esplorazione di questa disciplina emergente.

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1. Simone, quali metodi e strumenti sono necessari per studiare il comportamento, le relazioni con lo spazio, le piattaforme, la cultura e l’esperienza? Ci spieghi il processo dietro la costruzione di un progetto interattivo?

Gran parte del lavoro di un interaction designer sta nel costruire e progettare una relazione che una persona può avere con un prodotto, un servizio o anche uno spazio/installazione. Ci sono un sacco di aspetti da dover curare: la comprensione iniziale, il dialogo, la costruzione della fiducia e anche qualche sorpresa qua e là. Per fare ciò bisogna conoscere l’utente immergendosi nel contesto di utilizzo. Facciamo spesso ricerca sul campo sia osservando che intervistando le persone per ottenere insight che vanno al nocciolo dell’esperienza o problematica con un oggetto. Successivamente si proietta nel futuro l’esperienza che si vuole ottenere, a volte in teoria, costruendo customer journey e definendo principi dell’esperienza, a volte più in pratica iterando direttamente con tecnologia, materiali e sketch.

Dipende molto dal tipo di progetto, è un po’ come progettare un edificio ma in uno spazio digitale. Bisogna mappare le funzioni, definire come le persone navigano tra le “stanze” digitali creando degli indizi o segnali, progettare alcuni momenti di stupore oppure altri puramente funzionali, e infine tirare su il tutto in modo che funzioni con l’infrastruttura (in questo caso il codice) e aggiungere tutti i dettagli interni. Più un prodotto è evoluto e intelligente, più bisogna progettare anche il comportamento del prodotto stesso. Quale carattere ha, che informazioni ha a disposizione, che logica sta dietro alle sue scelte. A volte nascondiamo il tutto dietro il termine smart, ma c’è un mondo di scelte fatte a livello computazionale che determinano l’esperienza finale che una persona ha con un oggetto. Questo diventerà sempre di più il materiale che si progetterà oltre a bottoni e manopole: comportamenti umani e anche computazionali.

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2. A proposito di esperienza e relazione con lo spazio, in che modo l’interaction design può essere applicato al mondo del consumo, e quindi al retail design?

L’interaction design non è legato solo agli schermi, gran parte del nostro lavoro sta nel capire, interpretare e re-immaginare l’esperienza di una persona non solo con oggetti singoli ma anche con sistemi complessi o spazi. A volte capita di dover progettare un’esperienza in un negozio come un’installazione interattiva che funge un po’ da sorpresa e diletto. Altre volte invece lavoriamo su tutta l’esperienza, il flusso da quando una persona entra in un negozio, cosa vede, come sceglie, prova, paga, ma anche potenzialmente come il tutto sia uniforme anche con il lato digitale e online.

Il Service design è una disciplina che progetta questi flussi attraverso diversi touchpoint. A volte come Interaction designer ti trovi a essere più service designer, ma personalmente non vedo divisioni cosi rigide. Oggi con sempre più tecnologia che straborda dagli schermi ed entra in oggetti e spazi comuni (RFID, Face Recognition, ecc.), un negozio è uno spazio misto, fisico e digitale allo stesso tempo, che va progettato capendo sia il flusso di persone che quello di dati.

3. Una tua frase ha attirato la nostra attenzione: “non bisogna produrre oggetti di successo, ma oggetti che con successo possono essere amati”. In che modo è possibile raggiungere questo obiettivo?

Il sogno di molti designer è quello di progettare prodotti che vengano amati e diventino compagni di vita. I prodotti di Dieter Rams per Braun hanno un valore che va oltre il loro utilizzo e sono stati progettati per rimanere nel tempo, sia a livello materiale che a livello di linguaggio e comprensione. Benché amato, l’iPhone è progettato per deperire e essere intoccabile dall’utente finale dopo 3 anni. Oggi la velocità di entrare sul mercato conta più della qualità del prodotto, e il comprare o fare un upgrade è più comune rispetto al riparare. Misuriamo startup e nuovi prodotti in base a quanto investimento riescono a racimolare da venture philanthropy, e non come il loro prodotto impatti la vita di una persona, come la supporti oltre il “wow” iniziale. In qualche modo il successo sembra misurato sulla facciata più che sulla sostanza. “Fail fast!” è il motto che viene da Silicon valley, ma magari una filosofia “slow” come nel cibo può essere più adatta per un futuro sostenibile.

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4. Nel tuo progetto premiato “Addicted products” hai connesso un tostapane smart in un network di altri oggetti, pensando che confrontandosi con gli altri suoi simili probabilmente si sarebbe sentito frustrato dall’essere poco utilizzato. Hai quindi immaginato un servizio del futuro in cui gli oggetti smart non possono essere comprati ma solo ospitati dalle persone. A quali preziose conclusioni sei arrivato sul futuro degli oggetti connessi, o Internet of Things?

“Addicted Products” è un progetto di quasi 3 anni fa e rappresentava una visione critica del trend che invece si sta materializzando ora del “tutto connesso e tutto smart”. Molte di queste design fiction servono ad aprire discussioni sul futuro, su cosa vorremmo o non. Il termine “smart” è ormai utilizzato come nuovo labelper definire un oggetto a cui viene appiccicato qualche sensore e qualche metodo di comunicazione radio con un’app. Guardando su Kickstarter ci sono innumerevoli oggetti che fanno parte di questa categoria: bottiglie, calze e anche porta uova.

Usma Haque, mio mentore del progetto, mi disse: “Un oggetto veramente smart in realtà potrebbe fare cose che non ci aspettiamo, o con cui potremmo non essere d’accordo”. Questo mi ha spinto a guardare oltre al primo passo del “connettere”, mi ha portato ad esplorare quale implicazioni emergono da una moltitudine di oggetti che parlano tra di loro e come la somma di questo network influenzi la vita di una persona. A volte magari in maniere inaspettate.

Gran parte degli oggetti smart che ci sono oggi sembrano replicare cosa successe ai tempi dell’elettrificazione: prima fu il “wow” che derivava dal flusso di elettricità, ora quello dei dati.

L’efficienza è il valore che sembra regnare, ma io spero in un futuro magari più incasinato ma anche più interessante.

5. Da chi, dove o come cerchi ispirazione per i tuoi lavori? Ci consigli qualche libro o sito/blog?

Gran parte dei progetti nascono da discussioni con altre persone con cui collaboro (Matthieu Cherubini, Joshua Noble, Giorgio Olivero, Giovanni Innella) o che conosco in giro. Ci imbarchiamo nel distruggere mentalmente qualche presupposto e finiamo con domande del tipo “ma se ci fosse un mechanical turk invece che un algoritmo a controllare un venitlatore?”, e poi ne tiriamo fuori un oggetto o una storia. Mi piace molto partire da situazioni e oggetti comuni per poi trovare le complicazioniche derivano da nuovi trend, utilizzi e tecnologie.

Per quanto riguarda i progetti e la qualità dei concetti, adoro i lavori di Near Future Lab, Superflux, e Berg che ha ormai chiuso. Ultimamente leggo molti corti di Sci-fi, Cli-fi, come blog per la procrastinazione giornaliera invece guardo molto Creative ApplicationsProsthetic Knowledge e Motherboard. Tutto il futuro in cui credo è stato scritto già da Douglas Adam in “Guida galattica per autostoppisti”. Per capire le basi di tutto ciò che è interattivo Dubberly è un must, e per uscire al di fuori di cosa intendiamo per design oggi e guardare al futuro “Speculative Everything” di Dunne e Raby.

Intervista a Simone Rebaudengo