Da sempre il tempo è strettamente connesso allo sviluppo della società e la concezione che abbiamo di esso è stata profondamente modificata con l’avanzare del processo tecnologico e in particolare con l’avvento del digitale.
La presenza massiva dell’uso del digitale e delle reti sociali nelle nostre vite ha avuto un impatto considerevole sulla percezione del tempo e sulla nostra capacità di misurarlo e di viverlo. L’accelerazione che riguarda la maggior parte delle nostre azioni, come la necessità di condividere in tempo reale la nostra quotidianità, comunicare costantemente e interagire con comunità online e persone fisicamente distanti da noi, ha fatto sì che la nostra percezione del tempo fosse sì oggettivamente più precisa, ma soggettivamente più accelerata. Secondo lo psicologo e docente di psicologia Philip Zimbardo, nell’era digitale “la tecnologia ha creato una specie di ossessione rispetto al tempo, un’ossessione di breve respiro, legata all’immediato presente e al futuro più prossimo. Il nostro “fuso orario” individuale può essere modificato dalla tecnologia perché essa accelera il nostro orologio interno rendendoci impazienti rispetto a tutto ciò che richiede più di pochi secondi per essere ottenuto”.
Negli ultimi due decenni, la digitalizzazione e l’uso crescente dei social media hanno trasformato radicalmente il nostro modo di vivere, lavorare e comunicare. Questa rivoluzione digitale ha portato con sé numerosi vantaggi, ma ha anche introdotto nuove sfide e nuovi interrogativi, tra cui un aumento del sentimento di urgenza e fretta nella nostra quotidianità.
La digitalizzazione ha permesso una rapida evoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Dagli anni ’90 in poi, abbiamo assistito a un’esplosione di dispositivi digitali, internet ad alta velocità e, più recentemente, alla diffusione capillare dei social media. Questi strumenti hanno reso il mondo più connesso, abbattendo le barriere geografiche e permettendo una comunicazione istantanea su scala globale.
Facebook, Twitter, Instagram, LinkedIn e molte altre piattaforme hanno rapidamente guadagnato popolarità, diventando parte integrante della nostra vita quotidiana. Secondo una statistica di Tridens Technology (1) nel 2024 ci sono più di 5 miliardi di utenti con un profilo attivo sui diversi social network. Questa statistica è destinata ad aumentare e si stima che nel 2027 il numero di users arriverà a sfiorare i sei miliardi.
Per le imprese, i social media rappresentano una piattaforma fondamentale per promuovere prodotti e servizi, raggiungere nuovi clienti e interagire con il pubblico in modo diretto. La digitalizzazione ha inoltre aperto nuove strade per il commercio elettronico, permettendo alle aziende di espandersi oltre i confini tradizionali.
Anche all’interno dell’organizzazione del lavoro in azienda, soprattutto in seguito alla pandemia di Covid-19 che ha cambiato le carte in tavola dando spazio al lavoro da remoto e aumentando in modo esponenziale le piattaforme di streaming e video conferenze, la digitalizzazione ha sancito un cambio di paradigma importante.
Gli effetti delle videochiamate di Zoom sul cervello umano.
Da una ricerca condotta presso l’Università di Yale dalla dottoressa e neuroscienziata Joy Hirsch e pubblicata sulla rivista Imaging neuroscience, (2) emergono interessanti risvolti riguardo le videochiamate, in particolare quelle effettuate tramite la piattaforma Zoom.
Secondo la ricerca, condotta su 28 adulti di diverse età e sesso, utilizzando strumenti come l’EEG e l’eye tracker, i sistemi sociali del cervello umano risultano essere più attivi durante gli incontri reali rispetto a quelli su Zoom. Secondo la dottoressa Hirsch questo accade “perché, con la tecnologia attuale, le rappresentazioni online dei volti non sembrano avere lo stesso impatto sui circuiti neurali sociali del cervello, a differenza delle interazioni in presenza”.
I risultati indicano chiaramente che le conversazioni in presenza presentano un aumento significativo dell’attività cerebrale in una zona nota come la regione dorsale-parietale. Durante tali interazioni, le onde cerebrali oscillano in modo theta, associato a una migliore elaborazione dei volti. Si è osservato anche un tracciamento oculare più prolungato e le pupille risultano generalmente più dilatate durante l’osservazione dei volti reali.
Una possibile spiegazione riguarda le limitazioni delle attuali tecnologie di video-comunicazione. Nonostante le webcam ad alta risoluzione, mantenere il contatto visivo è più complesso. Guardando la telecamera, non si riesce a concentrarsi sugli occhi dell’interlocutore sullo schermo e viceversa. Questa dinamica potrebbe spiegare alcune delle differenze osservate tra le due modalità di interazione.
Uno dei temi che viene spesso affrontato riguardo alle videochiamate è quello del cosiddetto “narcisismo digitale”. Ne parla lo psicoterapeuta e psichiatra Francesco Comelli che ci illustra come il fattore video abbia giocato un ruolo cruciale in questo processo di digitalizzazione, in cui la percezione dell’aspetto si fonde ai processi mentali ed emotivi. Con le nuove modalità di lavoro da remoto, le persone sono “forzate” a osservare la propria immagine sullo schermo per parecchie ore al giorno, concentrandosi sempre di più sul loro aspetto. Secondo Comelli “il contesto è quello di una deprivazione dei contatti normali e dell’uso del linguaggio del corpo: così il volto diventa sovraccaricato di troppi significati”.
Lo stesso psicologo continua spiegando come la nostra presenza video sia inevitabilmente collegata alla cultura contemporanea dei social media, in cui in una videochiamata, anche se in preda a frustrazione o sentimenti negativi, le persone sentono di dover proporre un’immagine presentabile e socialmente accettabile di sé stesse. Così il senso del volto si è trasformato: in rapporto al web e al lavoro, si può dire che si attua un filtro a livello comportamentale. Secondo Comelli il Narcisismo di cui parliamo quindi, “non è quello classico di materia psicologica bensì un narcisismo difensivo, che sottolinea il nostro bisogno di sicurezze, nel cercare di vedere la propria identità rispecchiata in quello che mostriamo”.
I social media influenzano il nostro cervello e come percepiamo le campagne pubblicitarie.
Da quando i Social si sono affermati come media predominante, da quando tutto il sistema mediatico è cambiato, le persone faticano a prestare attenzione alla lettura di un libro, avvertono la necessità di ricorrere al loro smartphone per aggiornare periodicamente il loro stato, informarsi, o gestire continuamente notifiche, mail, newsletter, quasi non potessero farne a meno. Le nuove generazioni, in particolare, risultano costantemente connesse sui social.
Il risultato è che i social media e i supporti digitali stanno rimodulando alcune facoltà mentali degli individui, ad esempio il pensiero profondo, l’attenzione e la memoria. Un processo di trasformazione che influisce anche sulla percezione dei messaggi pubblicitari delle marche.
M.Lindstrom, esperto di Branding e autore del libro Buyology, ha intrapreso un progetto di ricerca nel campo delle neuroscienze applicate al marketing per dimostrare come, attraverso la comunicazione digitale e in particolare i social – luogo virtuale in cui le persone spendono una fetta importantissima del loro tempo quotidianamente – un brand possa cambiare la percezione di sé. Infatti, grazie al neuromarketing, si è in grado di capire quali sono i meccanismi di acquisizione inconscia ed emotiva delle caratteristiche e del linguaggio di una determinata marca che si attivano nel cervello del consumatore. Scoperte che possono aiutare i brand ad adattare la propria strategia comunicativa tenendo conto delle necessità emotive dei consumatori.
Lindstrom, effettuando la ricerca su un campione di circa 2000 volontari di cinque paesi industrializzati da tutto il mondo, ha testato le reazioni del loro cervello rispetto ai messaggi di diversi brand utilizzando tecnologie di scansione cerebrale, fMRI (risonanza magnetica funzionale) e SST (versione avanzata dell’elettroencefalografia), per visualizzare quali aree si attivassero durante gli esperimenti. I volontari sono stati sottoposti alla visualizzazione di vari brand, richiedendo loro di fare valutazioni del prodotto (ad esempio di pacchetti di sigaretta), confronti e descrizioni.
La ricerca ha aperto ad importanti sviluppi nel campo del neuromarketing aprendo nuovi scenari rispetto ai pensieri, le emozioni e l’orientamento non consci dei consumatori, difficilmente rilevabili attraverso i più classici strumenti del marketing come interviste e ricerche di mercato.
L’utilizzo delle neuroscienze nel marketing si rivela infatti molto utile nella progettazione di una comunicazione diretta, soprattutto attraverso i canali social, a sviluppare una determinata condizione emotiva. Non è un caso che in questo campo, grandi corporation, il mondo della politica e del cinema stiano già conducendo studi e realizzando progetti basati sugli insight delle neuroscienze con l’obiettivo di stimolare le emozioni non conscie delle persone.
- https://tridenstechnology.com/it/statistiche-sui-social-media/#h-social-media-usage-statistics
- https://direct.mit.edu/imag/article/doi/10.1162/imag_a_00027/117875/Separable-processes-for-live-in-person-and-live
- LINDSTROM MARTIN, Buyology: How Everything We Believe About Why We Buy is Wrong, Cornerstone Digital, 2012.
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